E il regime censurò perfino “Faccetta nera”
che è tutto l’opposto di quello che cantano. Credono di celebrare il colore del fascismo e invece cantano ciò che il fascismo negò. Mi riferisco a quei ragazzi che alzano squallidamente il braccio nel saluto romano e intonano la canzone di Ruccione e Micheli per affermare la loro adesione al regime di Mussolini. Sbagliano e qualcuno deve pur dirglielo. Nel 1935, quando Mussolini prepara le operazioni militari contro l’Abissinia, vengono pubblicate ad arte notizie circa la schiavitù a cui sarebbero state sottoposte le giovani africane, vendute dalle famiglie. È questo un tema costante della propaganda fascista che tende ad attribuire all’invasione della nazione africana una motivazione nobile e civile. Il poeta romano Giuseppe Micheli, dopo aver letto queste notizie, scrive un testo (in romanesco, ma quasi identico a quello in italiano) con l’intenzione di presentarlo al concorso che si tiene ogni anno a Roma in occasione della Festa di San Giovanni. Non se ne fa nulla, ma poco tempo dopo la canzone – musicata dal maestro Mario Ruccione – conosce l’onore della ribalta al teatro Capranica, grazie all’interpretazione di Carlo Buti. Cui seguono quelle di Gabrè, Daniele Serra e moltissimi altri. Si tratta di Faccetta nera. «Si mo’ dall’artipiano guardi er mare – dicono le parole – moretta che sei schiava fra le schiave/ vedrai come in un sogno tante nave/ e un tricolore sventola’ pe’ te/ Faccetta nera bell’abissina/ aspetta e spera che già l’ora s’avvicina/ Quanno staremo vicino a te/ noi te daremo un’antra legge e un antro Re!/ La legge nostra è schiavitù d’amore/ ma libertà de vita e de penziere/ Vendicheremo noi, camicie nere/ l’eroi caduti e libberamo a te/ Faccetta nera piccola abissina/ te porteremo a Roma, libberata/ dar sole nostro tu sarai baciata/ starai in camicia nera pure te/ Faccetta nera sarai romana/ e pe’ bandiera tu c’avrai quella italiana/ Noi marceremo insieme a te/ e sfileremo avanti al Duce e avanti al Re!» Al cinema-teatro Quattro Fontane della Capitale, Faccetta nera viene cantata dalla compagnia della Fougez nell’interpretazione di Nino Taranto, Enzo Turco ed altri. In scena, compare in catene una giovane di colore, poi arriva la Fougez nelle vesti dell’Italia che la libera e le fa indossare una camicia nera. La canzone viene inserita in quasi tutte le riviste dell’epoca, diventa popolarissima, specie sulla bocca delle truppe in partenza per l’Africa. Avrà anche moltissime edizioni stampate e parecchi saranno gli editori e i compositori che se ne attribuiscono la paternità (uno è Gustavo Cacini, al quale la SIAE riconosce una percentuale sui diritti d’autore). In ogni caso, questa versione avrebbe già subito dei ritocchi rispetto a quella originale, che conteneva il verso «vendicheremo noi sullo straniero/ i morti d’Adua e liberamo a te», non gradito al regime in quanto riportava all’attenzione la disfatta italiana di Adua, pur avvenuta nel 1898. I versi vengono allora cambiati nel più generico «vendicheremo noi camicie nere/ l’eroi caduti e libberamo a te». Si vuole però che il Minculpop, il Ministero della cultura popolare, non gradisca in toto la canzone, in quanto fraternizzante con gli abissini, considerati razza inferiore, che i versi pongono invece sullo stesso piano degli italiani. Non sono ancora scattate le leggi razziali ma non ce n’è poi troppo bisogno perché i gerarchi fascisti diffidino di quei versi. Tant’è vero che in una pubblicazione musicale Campi Foligno, intitolata “100 radiocanzoni celebri” appare una versione rivista e corretta, consegnata – come si dice in seconda pagina – «alla Procura del Re ai sensi della legge sulla Stampa del 1932». Abbiamo segnato in corsivo le modifiche apportate, che appaiono assai significative: «Se tu dalle ambe or guardi verso il mare/ moretta ch’eri schiava tra gli schiavi/ vedrai come in un sogno vele e navi/ e un tricolor che sventola per te/ Faccetta nera ch’eri abissina/ aspetta e spera si cantò l’ora è vicina/ Or che l’Italia veglia su te/ noi ti portiamo un’altra legge e un vero Re!/ La legge nostra è libertà o piccina/e ti ha recata una parola umana/ avrai la casa e il pane o morettin/ e lieta potrai vivere anche te/ Faccetta nera ch’eri abissina/ aspetta e spera si cantò l’ora è vicina/ Or che l’Italia veglia su te/ avrai tu pure a Imperatore il nostro Re/ Faccetta nera il sogno s’è avverato/ non sei più schiava e più non lo sarai/ dal ciel d’Italia, libera, vedrai/ il sol di Roma splendere su te/ Faccetta nera ch’eri abissin/ tornò l’Impero ed or l’Italia è a te vicin/ La nostra Patria veglia su te/ e lo giuriamo al nostro Duce e al nostro Re». Ecco dunque che gli altipiani diventano «ambe», forse per non confondere le nostre colline con quelle africane. «Moretta che sei schiava» diventa «ch’eri schiava», come a dire «missione compiuta». È coniugata al passato anche «già l’ora s’avvicina» (“si cantò”) mentre diventa al presente «noi ti daremo » col dire «or che l’Italia veglia su te». Scompare «la legge nostra è schiavitù d’amore»: sempre di una schiavitù si tratta, meglio dunque «la legge nostra è libertà, o piccina » con l’aggiunta di «una parola umana», di «casa» e di «pane». «Un altro re» enunciava poi un semplice scambio di corone tra Savoia e l’imperatore abissino Negus, meglio chiarire che quello italiano è «un vero Re», visto ciò che si è detto e si dirà del ras abissino, del quale l’Italia non riconosce (adesso) alcun diritto sul popolo. Infine, la fanciulla «ch’era abissina» (dunque ora è italiana) potrà vedere che dal cielo d’Italia il sole splende su di lei, come a dire che senza che debba essere portata a Roma le arriveranno comunque i nostri raggi solari. Senza che lei diventi romana, che indossi la camicia nera e che marci con le camicie nere, sfilando davanti al duce. Che resti dunque al suo posto che tanto «la nostra patria veglia su te…» Lo stesso Buti inciderà la nuova versione, insieme a Ti saluto… vado in Abissinia, per i dischi Columbia. Ma non servirà a nulla: ormai gli italiani hanno imparato la prima versione e quella cantano. La cantano oggi, come dicevamo all’inizio, anche i nostalgici della destra, identificando in quel “nera” il colore della fede, ma sbagliano, come si è visto, poiché nera è la faccia delle abissine, come è nera la faccia dei migranti che arrivano oggi in Sicilia e che non piacciono troppo ai ragazzotti della destra. Gianfranco Venè osservava che «Faccetta nera è sicuramente un documento importante per comprendere con quale stato d’animo i combattenti italiani iniziarono la guerra d’Africa . In questo senso ci sembra vadano riascoltate le canzoni di quel periodo, e in particolare Faccetta nera: proprio per cogliere, al di là degli immediati riferimenti politici, lo stato d’animo e i sentimenti dei volontari partiti alla conquista dell’Etiopia e per tornare a vedere la realtà di quel momento con i loro occhi. Quest’ultimo punto è particolarmente importante perché oggi ci si può domandare – ed è giusto che ci si domandi – come facesse la “faccetta nera” della canzone a sentirsi felice di lasciare il proprio paese, di essere portata a Roma, di rinunciare ai propri capi per venerare il duce e il re italiani, di gettare tra le sabbie la propria bandiera per accogliere festante il tricolore, come gli autori vogliono farci credere. Per schiava che fosse, “faccetta nera” era pur sempre nata in Abissinia, ed è assai discutibile la gioia che Micheli e Ruccione le promettevano nell’imporle la camicia nera, nel privarla del proprio costume e della propria terra, nel darle una bandiera mai vista. Tanto più che – come i fatti avrebbero dimostrato nel corso della guerra d’Etiopia – le “faccette nere” abissine, maschi e femmine, combatterono disperatamente prima di lasciarsi imporre il nostro duce e il nostro re». «Eppure – continuava Venè – la canzone gronda di schietta, autentica simpatia per la bella abissina. E ciò, forse, significa che i riferimenti fin troppo precisi al duce, al re, al fascismo e a Roma vanno presi come metafore. In realtà, gli italiani non pensarono mai di sovrapporre i propri sistemi di vita a quelli abissini: dicendo “romanità” essi, per lo meno la maggior parte di essi, cercavano di esprimere con un simbolo un concetto di civiltà rispettosa dell’individuo, bonaria, generosa, nemica della schiavitù e della divisione in caste realmente esistenti in Abissinia». Il regime cercava dunque di contrastare una troppo eccessiva fraternizzazione, con le «morette», anche alla luce di quanto era accaduto nelle precedenti esperienze coloniali, quando Crispi si era trovato ad affrontare il «madamato», ovvero i numerosi matrimoni di ufficiali italiani con donne africane e relativo formarsi di famiglie miste. Ma questo è evidentemente un tema che in quel momento non può essere sbandierato e che invece preoccupa, anche perché altri autori imbastiscono romanzetti erotico- sentimentali sullo sfondo della città eterna: rulli di tamburo, trombe marziali, poi la voce di Miscel che in dialetto svolge il tema Africanella, di Martelli, Simi e Neri (“Si vienghi a Roma co’ me, africanella…”) sempre prefigurando l’apparizione di donne di colore a fianco dei nostri soldati sui colli fatali di Roma. Altri autori scriveranno canzoni dal titolo di Faccetta bianca, per bilanciare il successo di Faccetta nera, ma senza riuscirvi. Insomma, una canzone che non celebra il fascismo, anzi ricorda quella simpatia verso la popolazione africana che proprio al fascismo non piacque affatto. Etichette: Leo Donati |
Comments on "E il regime censurò perfino “Faccetta nera”"
Evviva la storia!
Caterina
Grazie del commento da me :-)
Saluti ! ;-)
FIUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUU
... come dici tu è vero che tanta gente senza pensare o meglio senza sapere alza il braccio destro al cielo e inneggia questa canzone senza nemmeno ascoltare le parole che dice... una massa di poveri ignoranti che spesso vantano di essere facisti senza nemmeno conoscere la storia... mi fanno prorio ridere...
Great share, thanks for writing this